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Cod Art 0328 | Rev 00 | Data 22 Set 2010 | Autore Pierfederici Giovanni

 

   

 

IL MARE COME DISCARICA

Fanghi tossici

Sopra, fanghi industriali scaricati presso la foce del Senna. Fonte, Airone Novembre 1985. Vedi paragrafo ködeldàmper.

Il mare è la più grande discarica del mondo. Per anni la civilissima Europa ha permesso lo scarico in mare di ogni sorta di rifiuto, dalle scorie radioattive ai fanghi tossici delle industrie di ogni tipo. Secondo l'UNEP è proprio il Mediterraneo il mare più inquinato e, il 62% dei rifiuti che lo soffocano, sono costituiti da plastica e da mozziconi di sigarette. Il Mediterraneo è un mare chiuso e il ricambio delle sue acque è molto lento, per cui tutto ciò che entra si accumula su aree limitate.
Ma allargando il contesto non stanno meglio il resto dei mari, sono solo molto più estesi e quindi i rifiuti si distribuiscono su aree molto grandi, ma pur sempre di rifuiti si tratta. Ora sono ben quattro i rubbish dump o rubbish soup, i grandi vortici di plastica da 100 milioni di tonnellate, scoperti per la prima volta da Charles Moore, oceanografo americano fondatore dell' Algalita Marine Research Foundation. Più di un milione di uccelli e centomila mammiferi marini muoiono ogni anno a causa dei rifiuti di plastica e, all'interno dellO stomaco di molti uccelli marini, sono stati trovati siringhe, accendini e spazzolini da denti.
Ma chi getta così tanti rifiuti di plastica in mare?
Nel 1988 l'oceanografo Edward Goldbert (1921–2008), pubblicò una serie di dati riguardanti proprio la plastica e altri rifiuti gettati in mare. All'epoca circa 250 tonnellate all'anno, secondo l'Accademia Americana delle Scienze, arrivavano dalle flottiglie di pesca internazionali, mentre il grosso, ben 5.600.000 tonnellate (non solo plastica ma rifiuti solidi eterogenei), arrivavano dalla flottiglia mercantile, a causa delle cosidette perdite accidentali. Goldbert stimò che il quantitativo di plastica e di rifuti solidi che ogni anno giungono al mare in 6.400.000 tonnellate, calcolando anche il carico di rifuti di una nave media:

tipo di rifiuto

quantità in %

Carta
Metallo
Tessuti
Vetro
Plastica
Gomma
63.0
16.6
9.6
9.6
0.7
0.5

Non disponiamo di dati aggiornati. Ma occorre considerare che da allora il traffico marittimo è notevolmente aumentato, la produzione di plastica e derivati del petrolio è aumentata, di conseguenza sono certamente aumentate le quantità di rifiuti in mare, anche perchè da allora poco è cambiato nella gestione delle problematiche ambientali che riguardano gli oceani.

 

Addio sacchetti plasticaBOX 1: SACCHETTI DI PLASTICA ADDIO...
Finalmente sembra essere arrivata la fine per i sacchetti di polietilene. Dal Gennaio 2011 l’Unione Europea, a meno di deroghe, ha deciso di mettere al bando i famigerati sacchetti che tanto hanno inquinato il nostro pianeta, e soprattutto il nostro amatissimo mare. Molti soni i centri di vendita, specialmente della grande distribuzione, che hanno eliminato da tempo la possibilità di inserire la spesa in sacchetti di polietilene, sostituendoli nei più pratici sacchetti multiuso o di materiale biodegradabile. Le confezioni in bioplastica prodotta dalle fibre del mais, biodegradabili nell’ambiente, anche se hanno un maggior costo (in media 8 - 9 centesimi di euro con picchi di 15 centesimi, contro i 5 centesimi del sacchetto di polietilene), si disgregano in tempi molto brevi, a fronte dei 200 - 400 anni necessari ad un sacchetto di polietilene, senza tener conto del grave danno causato alla fauna marina. Sono migliaia infatti, i pesci, gli uccelli, i mammiferi e i rettili marini che muoiono ogni anno a causa della plastica.
L’utilizzo dei nuovi sacchetti bio doveva iniziare lo scorso anno, ma un emendamento della finanziaria ha prolungato l’utilizzo dei vecchi ancora per tutto il 2010. Naturalmente molte regioni da tempo hanno intrapreso la strada dell’informazione e dell'educazione, che vede naturalmente gioire tutte le più importanti organizzazioni ambientaliste. La Coldiretti ad esempio, ci aiuta a capire l’importanza di questo evento: per produrre 1 kg i sacchetti di polietilene si immettono nell’ambiente 2 kg di CO2, mentre per 1 kg di sacchetti di bioplastica vengono prodotti 800g di CO2. Per 100 sacchetti da 10 gr. ciascuno sono necessari 10 kg di petrolio, per gli stessi 100 sacchetti di bioplastica sono necessari 0.5 kg di mais e 1 kg di olio di girasole.Se poi si fa un conto approssimativo del consumo di sacchetti di polietilene nel mondo, la cifra è spaventosa: 500 - 1000 miliardi di sacchetti, pensando che un sacchetto si utilizza nei paesi più industrializzati mediamente per soli 20 minuti, a fronte di un tempo di degradazione di 200 - 400 anni.Sacchetti addio
Si impone dunque, da parte di tutti, un utilizzo dei sacchetti multiuso in tela oppure dei nuovi sacchetti biodegradabili per la spesa, anche se meno resistenti dei tradizionali (ma stanno arrivando sacchetti più resistenti), con un effetto sicuramente meno impattante sull'ambiente. Sembra poi che l’utilizzo della carta per produrre sacchetti per la spesa con il passare degli anni non abbia prodotto effetti positivi nei consumatori, con costi oltretutto maggiori, anche se la carta si ricicla più facilmente. In alcune città Italiane l’utilizzo di sacchetti di polietilene è stato bandito dal 2009, con multe pesanti per chi trasgredisce l’ordinanza. Sono molti poi i paesi internazionale che da tempo hanno previsto questo divieto.
Castronuovo Motta Nicola

 

KÖDELDÀMPER

Ködeldàmper è il nome con le quali venivano indicate le imbarcazioni che presso la località di Köhlbrandhöff caricavano i fanghi di filtrazione dei depuratori di Amburgo per poi scaricarli nelle acque del Mare del Nord. L'operazione di scarico non avveniva neanche lontano dalla costa, solitamente si scaricava presso la foce del fiume Elba, ovvero poco fuori dal porto, su fondali di neanche 20 metri. Unica raccomandazione, che proveniva dall' Istituto Idrografico Tedesco, era quella di mantenere una velocità di crociera elevata per ottenere un minimo di diluizione dei fanghi tossici in acqua. Così la città di Amburgo si liberava ogni anno di 300.000 tonnellate di fanghi, ovvero gettandoli in mare, il che non spiega il ruolo del depuratore se poi, tutto ciò che tratteneva, veniva gettato comunque in mare. La comunità locale di pescatori tollerò la cosa per decenni, poi verso i primi anni 70 del secolo scorso reagirono e fortunatamente l'ultimo viaggio di una Ködeldàmper avvenne il 15 aprile 1983.
Il problema dei fanghi di depurazione non è solo di Amburgo, per esempio New York ha scaricato nella baia per 50 anni una media di quasi 5 milioni di tonnellate di fanghi su fondali di 37 metri, a 12 miglia a est del porto della città. Quella che un tempo era una baia pescosissima si era trasformata in uno specchio sterile di acqua putrida. E poi ci sono altre città e altri paesi meno sospetti, la Svezia per esempio, che come l'Italia, il Belgio, l'Irlanda e il Portogallo per i quali nel 2001 la Corte Europea ha deciso la costituzione in mora per non adempimento della direttiva comunitaria sui fanghi di depurazione.
Ma anche fanghi di altra natura sono stati e vengono tuttora scaricati in mare. Ogni mattina una motonave di proprietà della Montedison, scaricava in mare 3.000 tonnellate di fanghi al fosforo, con il benestare dell'allora Ministero della Marina Mercantile. Montedison adottò sempre l'arma del ricatto, minacciando di chiudere gli stabilimenti nel caso fossero state derogate le autorizzazioni. Il caso Montedison (157 morti per tumore, 120 discariche abusive, 5 milioni di metri cubi di fanghi tossici) si è concluso nel 2004 con la condanna di numerosi dirigenti di Enichem e Montedison.
I fanghi al fosforo sono chiamati fanghi rossi; la scandalosa prassi di liberarsene scaricandoli a mare era attuata dall'Italia, in Adriatico, dalla Francia e dalla Gran Bretagna che scaricavano in Atlantico, in un canyon sottomarino dove sono finiti anche molti fusti con scorie radioattive. I fanghi rossi sono un prodotto secondario di numerosi processi di lavorazione. Per esempio dalla lavorazione dell'alluminio si ottengono fanghi rossi composti da ossidi di ferro e idrossidi di alluminio, che una volta scaricati in mare si rivelano tossici e uccidono un'altissima percentuale di pesci, imbrattandone le branchie e impedendone la respirazione.

 

BOX 2: LA SENTENZA DEL PROCESSO ALLA MONTEDISON
I responsabili delle morti, delle malattie e dell’inquinamento del Petrolchimico di Porto Marghera ora hanno qualche nome e qualche faccia. La Corte d’Appello di Venezia, infatti, ha ribaltato la sentenza del processo di primo grado che aveva assolto tutti gli imputati e ha condannato cinque di loro ad un anno e mezzo di reclusione per l’omicidio colposo dell’operaio Tullio Faggian, uno dei lavoratori morti per l’avvelenamento da cloruro di vinile monomero (Cvm) emesso dall’impianto industriale veneto. I condannati sono Emilio Bartalini, Renato Calvi, Alberto Grandi, Piergiorgio Gatti, Giovanni D’Arminio Monforte. Condanne parziali certamente, ma che confermano la tesi accusatoria, ovvero che le numerose morti e malattie che hanno colpito i lavoratori di quell’azienda sono state provocate proprio dall’inefficienza dei controlli sulle emissioni e dalla scarsa attenzione dei dirigenti alla tutela della salute di chi ha lavorato una vita al Petrolchimico e lì quella vita l’ha pure persa. Si gira così la buia pagina del 2 novembre 2001, quando i 28 imputati, tutti dirigenti o ex dirigenti di Montedison, Enimont e Enichem, furono assolti, lasciando senza colpevoli il disastro ambientale di Marghera. Finisce invece in prescrizione il reato di omessa collocazione di impianti di aspirazione dal 1974 al 1980. Prescrizione che comunque riconosce la fondatezza del reato. La Montedison è stata considerata responsabile civile delle morti per Cvm registrate tra il 1973 e il 1980. Ora dovrà risarcire con 50mila euro le famiglie e con 8mila euro i figli delle vittime, oltre a farsi carico di tutte le spese processuali. «Purtroppo – ha commentato il pm di Venezia Felice Casson – la giustizia è arrivata troppo tardi. È un processo che si sarebbe dovuto fare vent’anni fa. Vent’anni fa avrebbero condannato tutti, come conferma la sentenza di oggi».

 

SCORIE RADIOATTIVE IN MARE

Sapete come è fatto un fusto per contenere materiale radioattivo? Si tratta di un contenitore di acciao a doppia parete spesso circa 20 cm. Pur sembrando una sorta di corazza impenetrabile, il suo stoccaggio definitivo è complesso. Ad oggi il problema delle scorie radioattive è insoluto. E' terminato pure il tempo delle miniere di sale, che un tempo si credevano secche e asciuttisime. Come quella di Scansano Ionico che ha mostrato di non essere affatto impermeabile. Solo in Germania, presso le ex miniere di sale della bassa Sassonia, le anomalie e gli incidenti sono stati quasi 2.000 in soli 13 anni, dal 1993 al 2006, e molti fusti di scorie radioattive sono danneggiati. Ora si parla di una colossale bonifica dal costo di 20 miliardi di euro.
Ma torniamo ai fusti di materiale radioattivo. Inizialmente essi devono essere raffreddati, poiché il cosidetto pasticcio nitrico (in poche parole, i rifiuti ad alta radioattività) emette una gran quantità di calore. Dopo 10 anni dallo scarico dal reattore i rifiuti vengono miscelati con una polvere vetrosa e appunto, vetrificati, per poi finire dentro a fusti di Inconel, che producono 100 - 150 Watt di energia sotto forma di calore, che scende a 20 watt dopo 5 anni. La vetrificazione, ovvero l'inglobamento dei rifuti dentro a dei blocchi vetrosi, sembra sia stabile per qualche millennio, poi si presume non possa più garantire alcuna protezione. Per questo i fusti devono necessariamente essere stoccati in luoghi geologicamente stabili e totalmente privi di acqua. L'acqua inoltre, nel tempo, corrode anche l'acciaio più resistente.
La parte in corsivo che segue è tratta da "Calabria radioattiva, Il traffico di morte è vecchio di anni" di Enrico Deaglio.

Il 17 giugno il settimanale «Cuore» pubblicò un articolo di Andrea Di Stefano che si apriva con una storia su Soverato, una storia che era stata spesso mormorata, ma mai scritta. Si trattava di questo: un cittadino di Soverato, Fausto Squillacioti, sentito informalmente dal procuratore Porcelli, gli aveva raccontato un episodio terribile: insieme a suo cugino Augusto, 5 anni prima, se n’era andato a pesca davanti a Calaluna di Montauro; avevano tirato le reti e si erano trovati davanti una palla di fango. L’avevano ributtata in mare, ma appena l’avevano toccata avevano sentito un forte bruciore alle mani, gli occhi avevano preso a lacrimare e avevano avvertito un forte prurito. Chissà che cos’era quella palla di fango. Poi era successo che Augusto si era ammalato di leucemia mieloide ed era morto. Anche Fausto contrasse la stessa malattia, curata con un trapianto di midollo. Il procuratore Porcelli raccolse poi un’altra testimonianza, quella dell’ingegnere Salvatore Colosimo. Questi, nel 1993, aveva visto sulla spiaggia di Copanello dei fusti gialli buttati a riva del mare. Poi erano arrivati due grandi battelli di cui l’ingegnere aveva visto i nomi - Isola Gialla e Corona - da cui erano scesi alcuni uomini che avevano portato via i fusti spiaggiati: fu un’operazione professionale, condotta da tecnici che indossavano tute bianche. I battelli appartenevano alla «Castalia», una ditta dell’Iri che si occupa dello smaltimento dei rifiuti nucleari.

Le operazioni di stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti tossici radioattivi ha dei costi molto elevati e, naturalmente, per questo motivo, alcuni finiscono per essere smaltiti illegalmente. Tralasciamo per ora il caso degli affondamenti sospetti e meno sospetti più recenti, come la nave dei veleni di Cetraro (Cosenza), sui quali torneremo in uno dei prossimi articoli, per raccontare di casi invece meno noti e che comunque molti hanno gia dimenticato. Infatti quello di Soverato è solo uno degli innumerevoli casi della breve storia del nucleare. Francesi, Inglesi e Olandesi hanno scaricato per anni fusti di scorie radioattive in mare, in pieno oceano Atlantico, il tutto nell'indifferenza della colllettività. Spesso oceanografi e geologi hanno clamorosamente sbagliato i loro calcoli e spesso i fusti tornavano sulla spiaggia. Emblematica la foto sottostante.

Bidoni tossici T102

Sopra, fusti in acciaio T102 sulla spiaggia di Ostenda, 20 ottobre 1984. Fonte, Airone Novembre 1985.

Ma quanti sono i fusti in fondo al mare? Difficilissimo tovare una risposta, probabilmente centinaia e centinaia. Nel settembre 1982 Greenpeace documenta e blocca lo scarico in mare di fusti contenenti materiale radiottivo. Tre mesi dopo, l'Olanda annunciò di aver rinuciato a tale pratica. Ma Inlgesi e Francesi per anni hanno scaricato le loro scorie in mare e, ora, nessuno sa cosa stia avvenedo nelle profondità marine. Anche l'Italia sembra abbia scariato nel mar Nero fusti dal contenuto sospetto. Inoltre lo scarico di liquidi a bassa radioattività in mare è prassi comune, avviene presso Cumbria (Sellafield, Inghilterra) nel mare d'Irlanda. Il reattore di Sellafield è chiuso dal 2003 ma la struttura che lo ospitava opera nel ritrattamento di combustibile irraggiato.
Un case study poco conosciuto è quello di Windscale, le cui acque radioattive hanno contaminato oltre 2.000 Km2 del mare d'Irlanda. Le analisi effettuate a partire dal 1967 mostrarono un elevao livello di radioattività, circa 100 volte superiore al livello di fondo. Nel limo però le concentrazioni di plutonio superavano di ben 22.000 volte le concentrazioni dello stesso elemento in acqua. Gli stessi pesci pescati nella zona presentavano concentrazioni di plutonio nel fegato 200 volte superiore a quella dei pesci prelevati in altre zone, per non parlare della concentrazione di plutonio nello stomaco, superiore di ben 5.000 volte. E il caso di Windscale è solo uno dei tanti.

Mappa affondamenti sospetti

La MAPPA degli affondamenti. I RELITTI (numerati nella carta qui sopra). Con la “X” sono segnati i siti di altri affondamenti sospetti: 1 CUNSKY (la nave ritrovata il 12 settembre scorso a 20 miglia dalla costa calabra, al largo di Cetraro, a 480 metri di profondità); 2 MIKIGAN (affondò il 31/10/1986); 3 RIGEL (affondò il 21/9/1987); 4 ROSSO (motonave naufragata nel dicembre ’90); 5 MARCO POLO (affondata nel tragitto tra Barcellona e Alessandria il 14/3/1993); 6 KORALINE (nave tedesca affondata il 7/11/1995 al largo di Ustica); 7 ASO (nave carica di soffiato ammonico, affondò al largo di Locri nel maggio 1979); 8 ALESSANDRO I (naufragata nel febbraio 1991); 9.FOUR STAR (in viaggio tra Barcellona e Antalya, affondata nel dicembre 1988). Fonte Repubblica. Sull'argomento torneremo in uno dei prossimi articoli.

RESIDUI DELLA LAVORAZIONE DEL DIOSSIDO DI TITANIO

Nell'ottobre del 1980 la nave Sirius di Greenpeace blocca per tre giorni, a Nordenham, il corso inferiore del Weser, impedendo lo scarico di una cisterna di proprietà della Kronos Titan. Alla fine il carico passò comunque e finirono in mare centinaia di tonnellate di residui acidi. La pratica dello scarico a mare, ovvero Verklappung in lingua tredesca, era allora di vecchia data e proseguì per moltissimi anni. Il mare del Nord ricevette rifuti di ogni tipo per anni e, tuttora, ne riceve. Nel caso della Kronos Titan lo scarico dei residui acidi diluiti avveniva a 20 miglia dalla costa olandese, presso Helgoland, ove scaricavano non solo le ditte tedesche, ma anche olandesi, inglesi e quelle di altri paesi europei. Nel febbraio del 1983 a dar man forte agli attivisti di Greenpeace intervennero anche i pescatori danesi, inglesi e tedeschi, che protestarono anche nei mesi successivi dello stesso anno contro gli scarichi in mare della Kronos Titan.
Il biossido di titanio si ottiene dall'ilmenite, un minerale che ne contiene però quantità molto basse, per cui l'estrazione avviene grazie ad un processo a umido che prevede ripetuti lavaggi con acido solforico. Tali lavaggi allontanano il ferro e altri metalli pesanti dall'ilmenite, che si presentano poi come solfati ferrosi da una parte e, dall'altra, si ottiene idrossido di titanio che poi per calcinazione permette di ottenere il diossido di titanio, la materia prima usata in moltissimi settori (areonautica, edilizia ecc..).
Per ogni tonnellata di diossido di titanio si ottengono 4 tonnellate di solfato ferroso, 8 tonnellate di acidi diluiti, tra cui 1.6 tonnellate di acido solforico e gran quantità di metalli pesanti. Ebbene tutti questi residui finivano regolarmente in mare, senza alcun trattamento, il che permetteva alle ditte di smaltire i propri rifiuti con costi irrisori. Per anni le cisterne di diverse ditte (Kronos Titan, Pigment Chemi e Bayer, quest'ultima ha però modificato negli anni '80 il processo di produzione), hanno disceso le acque del Reno e del Weser per inoltrarsi in alto mare a scaricare.
Ora le acque di Helgoland e del Doggerbank sono più tranquille, ma i sedimenti della zona presentano valori di inquinamento da metalli pesanti elevatissimi, tra i più elevati del mare del Nord.

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BIBLIOGRAFIA

SITOGRAFIA