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Cod Art 0639b | Rev 01 del 16.10.15 | Data 25 Nov 2014 | Autore Castronuovo M.Nicola & Pierfederici Giovanni

 

GLI INUIT, UN POPOLO, TANTI POPOLI - parte due

Tags: Inuit, eschimesi, tupilaq, angakok, qasgiq, Nuliayuk; Kannakapfaluk; Avilayoq; Immap ukuua, Takanakapsaluk, Unigumisuitok, Adlivum, Potlach, Aningat, Silap inua, Malina.

In questa seconda parte dedicata al Popolo dell'Artico, descriveremo uno degli aspetti meno noti del popolo Inuit, ovvero la vita spirituale e lo sciamanesimo.
Secondo l'antropologo Domenici D., i rituali Inuit sono pressoché rimasti immutati sino agli inizi del '900. Il pantheon Inuit è popolato da innumerevoli spiriti, evocati attraverso vari strumenti rituali come maschere, tamburi ed altri oggetti cerimoniali.
Le maschere in legno, materiale raro nell'Artico e considerato un frutto del mare, evocano il mondo animale; si tratta di quell'aspetto che in antropologia viene indicato con il termine di zoocentrismo che, tuttavia, rappresenta solo un aspetto dell'immensa spiritualità Inuit, da alcuni definita esasperata.
Sono diverse le divinità Inuit: tra le più importanti la Luna (Aningat), l'Aria (Silap inua), il Sole (Malina).

Strolaga Inuit

Qui sopra, un uccello dell'Artico dipinto dall'artista Inuit Pudlo Pudlat, oggi scomparso.

QUANDO L'ANIMALE SI FA MASCHERA
Le maschere prendevano vita al ritmo dei tamburi durante le feste e durante le occasioni di incontro tra gruppi amici. La vita del cacciatore Inuit era solitaria per molte settimane all'anno e, durante i rari incontri, si dava sfogo alla gioia. Durante queste feste le donne indossavano mascherine da dita, gli uomini indossavano invece dei lunghi guanti a forma di becco di uccello che rumoreggiavano come nacchere. Successivamente, entravano in scena i danzatori istruiti dall'angakok, lo sciamano, i quali indossavano maschere di vario tipo: maschere totem, di animali reali e mitologici, dell'Uomo-della-Luna, maschere aquila, lontra, salmone ecc...Ogni danza alludeva ad un mito o alle gesta epiche di un eroe. I danzatori imitavano l'animale in caccia in tutto e per tutto, ovvero nelle movenze, nel comportamento e, quando indossavano la pelliccia, l'uomo diveniva tutt'uno con l'animale stesso.
Tutto questo rappresenta il transito dall'umanità alla ferinità e viceversa, forse per ricordare un mondo epico dove la distinzione animale-uomo non esisteva. Maschera Inuit Yuit Yupik.
Dopo queste cerimonie al ritmo dei tamburi, le maschere venivano bruciate perché ritenute cariche di poteri sovrannaturali, difficilmente gestibili anche dallo sciamano.
Alcune maschere erano utilizzate per l'iniziazione dei ragazzi alla caccia. Alla base della caccia, dunque, vi era una lunghissima preparazione religiosa e, l'atto dell'uccisione della preda, non era altro che il capitolo finale di un lunghissimo preparativo che cominciava, appunto, sin dalla fanciullezza. Di eguale importanza erano i riti post-uccisione, indispensabili per ristabilire l'ordine turbato della natura.
Le maschere erano utilizzate dallo sciamano per i viaggi nell'aldilà che, nella mitologia Inuit, era composto da cinque Cieli e da cinque Inferi. Entrambi erano composti da un bestiario mitologico molto complesso, primo tra tutti il Grande Corvo creatore e civilizzatore. Questi viaggi erano finalizzati a ristabilire un ordine naturale perturbato in seguito all'infrazione di un tabù.

LA CERIMONIA DELL'INVERNO ARTICO E IL MITO DI SEDNA
Un'altra cerimonia importante per gli Inuit era quella che celebrava l'inizio del lunghissimo inverno artico, fatto di 24 ore di buio, per celebrare un rito di ringraziamento rivolto all'intero mondo animale per aver fornito carne ed accessori. La cerimonia si svolgeva interamente all'interno del qasgiq, la casa dei riti. In questa occasione si celebravano spettacoli di mimetismo, di parossismo, di ebrezza e secondo alcuni, anche di isteria, forse confusa con i frequenti fenomeni di trance. Dopo tre giorni di festa, le ossa degli animali uccisi, appositamente conservate per l'evento, venivano gettate in mare, per assicurare la reincarnazione e il ritorno sulla terra, in un'eterna sequenza di sacrificio-reincarnazione-sacrificio.

Foca scultura InuitNella cosmologia Inuit il Sole (Malina) è femmina e la Luna (Aningat) maschio. Oltre il sole vi è l'aldilà del paradiso, composto da cinque livelli decrescenti, da quello della miglior selvaggina a quello della peggiore. Ai livelli del paradiso si contrappongono i cinque livelli degli inferi, dove ci si nutre solo di farfalle e quindi si soffrono le pene della fame.
Come detto, lo zoocentrismo permea la spiritualità Inuit e il Grande Corvo è la divinità principale. Tuttavia la dea Sedna rimane la più celebrata. Esistono diversi racconti sulla sua sorte e assume spesso nomi diversi da zona a zona (Nuliayuk; Kannakapfaluk; Avilayoq; Immap ukuua = madre del mare; Takanakapsaluk = il terrore delle profondità; Unigumisuitok = colei che non vuole essere moglie).
La versione meglio nota racconta che Sedna, figlia di Anguta, corteggiatissima da tanti uomini, scelse di sposare un uccello marino che le promise di vivere una vita agiata nel suo soffice nido di piume. Il padre Anguta fece di tutto per evitare tale unione, ma alla fine Sedna si sposò. Scoprì, purtroppo, che le promesse fattele erano false e così, quando il padre andò a trovarla a bordo del suo kayak, fuggì con lui. Il marito-uccello, infuriato, seguì i due e li raggiunse e così Anguta, per salvarsi, getto Sedna in mare. Ella tentò di risalire a bordo del kayak ma Anguta le troncò le dita con un remo. Così affondò nell'Adlivum, ovvero il mare profondo, dove diede alla luce ibridi mezzi uomini e mezzi cani. I mezzi uomini sono gli stessi Inuit, i mezzi cani sono i bianchi e le altre etnie amerindie. Le dita mozzate di Sedna si tramutarono in animali marini. Dall'Adlivum Sedna ogni tanto lascia andare qualche animale marino da sacrificare per il popolo degli Inuit.
Sedna è di esempio per tutte quelle donne che si rifiutano di sposare i mariti scelti dai genitori. La pena è l'isolamento dal resto della comunità.
Nel testo La Grande Festa, di Vittorio Lanternari, si narra della festa di inizio inverno degli Inuit centrali, quando i rumori dei blocchi di ghiaccio spinti dal vento vengono scambiati per i gemiti dei morti o dei demoni. Guai ad uscire durante la tempesta, ogni uomo potrebbe cader preda degli spiriti malefici (tupilaq), senza possibilità di scampo alcuna. Anche Sedna potrebbe, in tale occasione, accedere al mondo dei vivi e, quindi, è ritualmente invitata al villaggio per poi essere espulsa.
Uno sciamano in trance la evoca con canti magici, un altro mima, con un arpione in mano, il cacciatore di foche. Ad un tratto, quando il primo sciamano vede emergere la testa di Sedna da un finto foro di respirazione sul ghiaccio, l'arpionatore le conficca in testa la micidiale arma, trafiggendola. Ma Sedna non muore, tenta di trascinare giu arpione e cacciatore, senza riuscirvi. Alla fine Sedna si arrende, viene scacciata e l'intero gruppo esulta in canti di gioia.
Sedna, in questo caso, è ritualmente identificata con una foca, come foca è trattata e come foca essa stessa agisce. È e rappresenta la figura dell'animale cacciato e ucciso. L'invito a presentarsi è l'atto per espiare il sacrilegio dell'uccisione di un animale durante la stagione della caccia.

Il ritorno dei morti alla fine della stagione della caccia, che coincide con l'inizio dell'inverno, ha delle profonde analogie con altre feste degli Inuit occidentali e con i vari Potlach degli Indiani della costa ovest del Canada; in genere, è una festa analoga a molte altre delle civiltà pescatorie settentrionali. In un certo senso, la festa del ritorno dei morti è paragonabile al capodanno delle civiltà agricole come la nostra e a quello dei cacciatori delle foreste tropicali. Sono esperienze eterogenee ma convergenti dal punto di vista religioso.
I rituali dei popoli nordici rientrano in quello che viene definito Complesso Religioso d'Inverno, legato inequivocabilmente alle tremende condizioni ambientali e climatiche decisamente pressanti e difficili. Gli Inuit che cacciano i grandi mammiferi sono esposti non solo al rischio dello scontro-incontro con animali grandi e possenti, ma anche al rischio dei fortunali, delle onde, del clima imprevedibile. Un incidente con un animale marino cela per sempre il corpo dello sfortunato marinaio-pescatore-cacciatore nelle profondità degli abissi. Il mare, che da agitato torna calmo, coprirà per sempre, come un'enorme tomba, i corpi degli uomini, i quali potranno tornare alla comunità solo da morti e per un giorno all'anno. Ecco come e perché il mare esercita, in ogni cultura pescatoria, immani potenze mitiche e sovrannaturali, al suo cospetto si celano morti misteriose e impossibili da comprendere.

La caccia è sacra ed esige sempre un tributo. Per cacciare occorre una lunga preparazione religiosa e magica e, dopo l'uccisione, segue sempre un altro rito per ristabilire l'ordine turbato della natura. Dunque un cacciatore Inuit inesperto cattura sempre più selvaggina di uno esperto perché quest'ultimo dedica molto tempo ai preparativi religiosi meno contemplati, invece, dai novelli cacciatori. Se l'armonia tra uomini e animali è alterata, si richiede l'intervento dello sciamano. Quest'ultimo dovrà compiere un viaggio-inchiesta nell'aldilà (in fondo al mare, sulla Luna o nella Terra degli Orsi). Il responso spesso è identico: un tabù è stato infranto e deve essere "riparato" attraverso, appunto, i rituali di riparazione.

ALTRE LEGGENDE
Lo squalo della Groenlandia nella leggenda Inuit

Secondo la leggenda Inuit, un'anziana signora, un giorno, decise di lavarsi i capelli con dell'urina per poi asciugarli con un panno. Poco dopo, complice il vento, il panno volò in mare e si trasformò nel primo esemplare della specie. La leggenda ha un fondo di verità, le carni di questa specie, infatti, sono "cariche" di urea. Sono tossiche e gli Inuit le utilizzano spesso come cibo per cani, previo ammollo in acqua salata per diversi giorni, appunto per renderle commestibili senza problemi. I cani che si cibano di carne di squalo della Groenlandia non trattata, manifestano la sindrome del "cane ubriaco", barcollano per molte ore, probabilmente la neurotossina agisce sul sistema nervoso centrale attraversando senza problemi la barriera ematoencefalica.

IL BALLO

Spesso gli Inuit si riunivano la sera nel luogo ove dimorava il capo del villaggio. Le donne e i bambini si disponevano a semicerchio, mentre alle loro spalle prendevano posto gli uomini. Nello spazio libero al centro si disponevano i danzatori. Le occasioni per danzare erano numerose: per esempio, per favorire la guarigione di un ammalato, in tal caso il danzatore ballava sino a cadere in trance, oppure durante i racconti di caccia che spesso erano all'origine di controversie tra due contendenti. In tal caso, idue ballavano e si canzonavano sino a quando il pubblico non decretava il vincitore. Altre occasioni comuni per il ballo erano i racconti mitici e di caccia e il canto vero e proprio. Le donne non ballavano mai e prendevano parte ai canti solo in rare occasioni.

CURIOSITÀ

Sei tu un uomo?
Nella notte, il silenzio del viaggiatore è interrotto da una presenza. "Inuhuarunai?" "Sei un uomo?". Non c'è eco e la sua voce è gia inghiottita dal ghiaccio. Panico. Se non è un uomo è nanùk, l'orso bianco e se è affamato è la fine. "Sono un uomo" replica la voce dall'altra parte. "Ma chi sei?". "Sono il figlio del cacciatore" oppure "Sono io".
Sembra strano ma per gli Inuit pronunciare il proprio nome verso uno sconosciuto è quasi tabù. Il nome ha un'anima propria che sarebbe assurdo pronunciare.
E se fosse nanùk, l'orso bianco? Unica possibilità, lanciare a terra oggetti e cibo; l'orso, molto curioso, spesso si ferma ad annusare ogni cosa, lasciando al viaggiatore tempo prezioso per allontanarsi.

CAUSE DEL DECLINO CULTURALE INUIT

"qui anche la morte non ha odore"

La vita spirituale degli Inuit, caratterizzata dallo sciamanesimo, ha prevalso per secoli e, come detto, si è mantenuta abbastanza integra sino all'inizio del '900, grazie alle enormi distanze e al clima che hanno tenuto lontani gli occidentali per molto tempo.
Le comunità erano costituite da individui misti e il ruolo di ognuno era ben caratterizzato. Ogni comunità era basata su una naturale comunanza dei beni, si viveva nel presente.
L'individualismo non era visto di buon occhio: "Il gruppo conta di più. Ognuno vuole essere diverso, ma le nostre differenze ce le portiamo dentro".
Lunghe giornate di ozio, isolamento e lunghi periodi senza cibo sufficiente, caratterizzavano dunque la vita degli Inuit; tuttavia queste problematiche (perlomeno definite tali da noi occidentali), erano affrontate con semplicità e dignità: non ci si lamentava se si rimaneva senza cibo, anche per due o tre giorni consecutivi. L'unità del gruppo e della comunità era di gran lunga più importante.

Ad oggi, solo in alcuni territori dell'Alaska e della Groenlandia centrale le popolazioni dei ghiacci vivono e cercano di praticare la vita di un tempo. La cultura europeista occidentale si è pian piano infiltrata nella vita di tutti i giorni e la caccia viene praticata con i fucili e non più con gli arpioni, così il delicato equilibrio della loro esistenza si è andato inceppando.
Il cristianesimo ha fatto breccia, sostituendosi in parte allo sciamanesimo, a cominciare dagli inizi del secolo scorso, grazie soprattutto al lavro dei padri gesuiti; questo avvenne ancor prima con i russi ortodossi che, nel 1794, iniziarono a catechizzare le popolazioni dell'Artico.

I cambiamenti culturali, le malattie occidentali, le etichettature e i pregiudizi, soprattutto legati al maltrattamento degli animali, cani compresi, iniziati da quando la Danimarca decise di incorporare a se le regioni più remote della Groenlandia e fornire agli abitanti una casa di cemento ed istruzione scolastica di tipo occidentale, hanno contribuito alla disgregazione dell'identità culturale del popolo dell'Artico.
Gli Inuit si sentirono come morti, rinchiusi dentro un luogo senza anima e vita, svilupparono persino delle fobie nei confronti delle case in cemento e mattoni: "come vivere li dentro, abituati come siamo a sentire il rumore del vento e il freddo sulla nostra pelle?".
Peroni, in tal senso, fornisce però una spiegazione alternativa: la responsabilità non è da attribuirsi soltanto al governo danese, alla fine dell'autonomia Inuit e all'istruzione in sè, piuttosto, sembra aver contribuito maggiormente la campagna presa in difesa degli animali del polo da parte delle associazionbi ambientaliste, agli inizi degli anni '80; iniziativa certamente lodevole, spiega Peroni, ma completamente decontestualizzata rispetto alle esigenze culturali degli Inuit che, di certo, non trucidavano migliaia di cuccioli di foca per il mercato europeo, prendendoli a bastonate e scuoiandoli ancora vivi dai cacciatori canadesi. Come spiegato sopra, la caccia era un rituale religioso e l'uccisione della preda la fase centrale dell'intero rituale.
Le immagini del massacro dei cuccioli di foca fecero giustamente inorridire l'opinione pubblica e per questo si decise di mettere al bando la caccia alle foche. Con questo sistema, però, si mise fine anche alla sopravvivenza di alcuni gruppi Inuit che cacciava solamente da una piccola imbarcazione un individuo per volta e soltanto per sfamare la propria famiglia: "Perché cacciare due foche? Ne basta una, la mangi e quando hai di nuovo fame torni e ne prendi un'altra".
Certamente il metodo di caccia Inuit era cambiato, non si usava più l'arpione ma il fucile, era più comodo e più efficace, ma si abbatteva comunque un solo individuo.
Inoltre, aggiunge Peroni, la caccia non era praticata solamente per una mera (e comunque comprensibile) ragione di sussistenza; un uomo che non poteva sfamare la sua famiglia perdeva anche il ruolo sociale e la propria stima. Per secoli la capacità di provvedere a se stessi era stata il fondamento delle comunità locali e nessun sussidio, soluzione vana e superficiale, fu in grado di risollevare la drammatica situazione culturale degli Inuit. Per loro la caccia era tutto.

Con i sussidi arrivarono anche i cambiamenti che portarono gli occidentali, alcolismo e tabagismo divennero ben presto dominanti e gli Inuit, che non avevano più niente da fare perché non potevano cacciare, andavano a ritirare il sussidio e si ubriacavano.
È una storia che si ripete sempre uguale, dagli indiani d'America agli aborigeni australiani.

Gli Inuit avvertivano il disagio di non poter più fare quello che avevano fatto per secoli e senza "rompere" gli equilibri dei luoghi. Tra l'altro, non pensavano di essere vittime di un'ingiustizia, credevano di essere in difetto e che i bianchi avessero ragione. "Pazzesco", pensai dentro di me. Poi arrivarono i primi suicidi, un fenomeno privo di precedenti, scrive Peroni. In passato, nella tradizione degli Inuit, poteva accadere che le mogli rimaste sole e prive di sostentamento, in seguito per esempio alla morte del marito, si gettassero dagli scogli con i propri figli, si privavano della vita prima che fossero il freddo e la fame a farlo.
Oppure, racconta ancora Robert: "I più anziani, quando capivano che la loro vita era agli sgoccioli ed era quasi giunta la propria fine, si allontanavano volontariamente e si costruivano un piccolo igloo in mezzo al nulla, nell'attesa della morte.

Si tratta di siituazioni a cui è difficile dare una risposta, quello che è certo è che gli Inuit erano e sono i veri abitanti di queste terre e noi gli intrusi. Ormai l'estensione dei territori dove essi abitavano si è ridotta di molto rispetto ai secoli scorsi e le antiche rovine di strutture e tombe arcaiche, ritrovate fino al San Lorenzo e lungo le coste del Labrador, sono le uniche testimonianze di un'epoca perduta.

Fortunatamente Peroni, ha saputo capire il disagio di questa gente, e cerca di far conoscere al visitatore che si reca nell'Artico cosa significa essere Inuit, coinvolgendo le popolazioni del luogo. Come una bella favola, è sorta nel villaggio una casetta rossa, dove Robert ascolta ed accoglie chiunque voglia fare quattro chiacchiere o si sente solo o a disagio, per qualsiasi motivo.
Un rifugio per sbandati, dove un uomo bianco è diventato un tassello importante per la cultura del popolo Inuit, portavoce della loro sofferenza, ma anche rifocillatore di anime smarrite.

Un bianco accecante e un vento assordante, coprono il grido disperato di una popolazione colpevole soltanto di aver vissuto in un luogo magico fatto di demoni e divinità, tanti secoli orsono.

NOTA FINALE
Parte di questo articolo è un sunto di un articolo tratto da "Natura e Cultura: Inuit, surrealisti tra i ghiacci", pubblicato su Airone n. 166, del Febbraio 1995 (pagg 40-55).

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