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Cod Art 0597 | Rev 00 | Data 05 Mag 2013 | Autore: Pierfederici Giovanni

 

   

 

OCEAN GRABBING, OVVERO COME TI SACCHEGGIO L'OCEANO

Molti di voi avranno gia sentito parlare di Land Grabbing, ovvero di una pratica messa a punto dalle "economie emergenti" del pianeta, soprattutto da quelle del sud est asiatico e in particolare dalla Cina. La pratica è equiparabile ad una vera forma di colonizzazione; si acquistano terreni su larga scala e si sfruttano al limite, dietro lauti compensi che, di certo, fanno gola ai paesi poveri e hai governi poco propensi a tutelare le loro risorse e la popolazione che di risorse ittiche, appunto, vive. In Africa molti territori sono stati acquisiti dalla Cina e da altri paesi e vengono coltivati a riso, con sprechi immensi, soprattutto di risorse preziose come l'acqua. La Cina sta acquisendo e sfruttando anche enormi estensioni di taiga siberiana, letteralmente rasa al suolo per ottenere legname e altre materie prime.
Oltre alla prartica del Land Grabbing, esiste anche quella meno nota dell'Ocean Grabbing, sicuramente meno nota in Italia, poiché praticamente nessuno ne ha mai parlato. Tale pratica è più subdola, più difficile da capire e da quantificare perchè spesso celata o da accordi tra paesi ricchi e poveri (l'Unione Europea ha grandi responsabilità in tal senso), oppure da progetti che potremmo definire criptici, perchè mascherati come lodevoli iniziative ecologiche e di tutela del mare.
Purtroppo le responsabilità sono anche collettive, ovvero nostre e di chi si interessa poco del mondo in cui viviamo. Il disinteresse prevalente facilita accordi lucrosi che arricchiscono le grandi flotte dell'Europa, della Cina e della Russia, semplicemente perchè l'opinione pubblica non si scandalizza neanche di fronte agli accordi più beceri e neanche alle notizie che dovrebbero allarmare e allarmarci perchè, se un tempo non sembrava possibile riuscire a svuotare gli oceni, ora tale possibilità è decisamente meno remota.
Per fortuna che sul fronte dell'informazione qualcosa si sta muovendo. Il noto biologo Daniel Pauly (qui e qui le intervoste rilasciate all'amico Dario Piselli) ha recentemente pubblicato un articolo allarmante su Fish and Fisheries, ripreso poi dal magazine Nature del 4 aprile 2013. Ne hanno parlato poi altre testate, come il The Guardian e Le Monde; in Italia la notizia è invece rimasta in un angolino, con poche eccezioni (La Repubblica Ambiente, Ecologiae, IlFattoQuotidiano). Ora se ne occuperà SlowFish, all'interno di una serie di eventi aperti al pubblico e non solo agli addetti ai lavori, dal 9 al 12 maggio 2013, presso il Porto Antico (Genova).

  A CHI APPARTIENE IL MARE? SlowFish, Genova, Porto Antico, 11 maggio 2013, ore 16.00  
  Di Ocean Grabbing si parlerà a Slow Fish con un Laboratorio dell’acqua dal titolo A chi appartiene il mare? in programma sabato 11 maggio alle 16.00. A confronto esperti, professori e membri della rete internazionale di Terra Madre. Intanto, per avere un esempio concreto degli effetti di questa ruberia senza vergogna vi segnalo la storia di Fadiouth (Com'è cambiato il mare in Senegal), un piccolo villaggio che sorge su un'isola fatta interamente di conchiglie, raggiungibile da Joal (150 km a sud di Dakar), grazie a un lungo ponte di legno. La comunità indigena dei Seerer costituisce uno dei tanti esempi che abbiamo raccolto in questi anni di piccole economie che vivono in armonia con le risorse naturali sotto “attacco” continuo delle potenze europee.   
     

Il nuovo studio coordinato da Daniel Pauly, ha permesso di mettere a punto una nuova metodologia integrata che, basandosi sulla taglia del pescato e sulle catture, ha permesso di scoprire che l'enorme flotta cinese, composta da ben 3.400 imbarcazioni, dichiara in realtà un'aliquota delle catture irrisoria rispetto ai valori reali. Secondo le stime di D. Pauly, la Cina deprederebbe tra 3.400.000 e 6.100.000 tonnellate di pesce all'anno, contro una quota dichiarata di sole 316.000 tonnellate, ovvero il 9% delle catture reali.
Se così fosse, i paesi africani, dove 'pescano' le flottiglie cinesi, perderebbero decine e decine di milioni di dollari, perchè le condizioni contrattuali stipulate tra gli stati africani e il gigante asiatico, prevedono un'aliquota di catture decisamente inferiore, da qui l'interesse a dichiarare, da un lato, una quota di pescato irrisoria e, dall'altro, a sorvolare su qualsiasi programma di gestione a medio e lungo termine. La FAO ha contestato i dati del gruppo di Pauly, perchè "troppo alti e da verificare", tuttavia non ha negato il fatto che tutti rubano e lo fanno a discapito di chi sta peggio.
Ora, molti evidenzieranno il fatto che non c'è nulla di nuovo sotto il sole, un tempo l'Italia depredava le coste dalmate e i nostri pescherecci erano disposti pure a correre il rischio di essere impallinati dalle poco indulgenti imbarcazioni adibite al controllo (ricordo ancora il caso di un peschereggio di Pesaro, completamente sbucherellato dai proiettili della Guardia Costiera dell'altra sponda dell'Adriatico); i pescherecci siciliani sconfinavano in acque libiche e tunisine; i giapponesi hanno depredato, grazie alle nostre imbarcazioni complici, i tonni del Mediterraneo. Oggi è il turno dei cinesi e domani sarà il turno di un altro paese.
Purtroppo le condizioni del mare e degli oceani non sono quelle di decenni fa e oggi qualsiasi flotta non fa altro che raschiare il fondo di un barile, peraltro sempre più affollato.
Le popolazioni ittiche sono quasi tutte al collasso, tra sprechi, mercati e consumatori troppo sofisticati e viziati, abituati a consumare le solite specie. Così è nato il problema dei rigetti, si pesca di tutto per pochi esemplari che il mercato richiede, e si butta - morto - a mare, nel vero senso del termine, tutto il resto.
Per approfondire, SlowFish segnala la pubblicazione a cura dell' Ocean2012/Nef (rete internazionale di associazioni ambientaliste), che riporta sia la situazione dei mari europei che quella del nord Atlantico.

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